La storia delle scale Santa Barbara, il simbolo del vero orgoglio partenopeo

Pendino Santa Barbar Napoli

A pochi passi da quello che un tempo era uno degli antichi sedili della città di Napoli, vi è uno dei luoghi più caratteristici della città: le scale di Pendino Santa Barbara, un luogo che racchiude in sé una moltitudine di storie.

Proprio qui, al civico 30 di Pendino Santa Barbara, abitavano fino a pochi anni fa i coniugi Corelli.

Conobbi don Antonio Corelli durante un caldo pomeriggio d’estate, mentre rincorreva il piccolo Luca, uno dei suoi 5 nipoti, proprio su quelle caratteristiche scale.

Don Antonio per anni era stato custode del Teatro San Carlo, appassionato di storia, fermava chiunque passasse di lì dispensando storie e racconti, facendo innamorare chiunque.

Fu proprio lui a spiegarmi il significato di “sedile”. Erano così chiamati gli antichi quartieri della città di Napoli, ognuno con un suo simbolo e un proprio nome che ne identificava la precisa posizione. Grazie a lui scoprii l’origine di Sedil Capuano, così chiamato perché posizionato in direzione della maestosa città di Capua, o il più famoso Sedile di Forcella, il cui nome deriva dalla particolare conformazione della strada che si divide in due, diventando una forcina.

Ecco perché, ancora oggi, a tutti è nota come Forcella, fino al Sedile di Porto, uno dei nomi che il tempo non ha mutato, tramandandolo fino ad oggi.

Proprio qui in Via Sedil di Porto vi sono le scale Santa Barbara, tra le più caratteristiche della città di Napoli. Uniscono il quartiere San Giuseppe al quartiere Porto. Don Antonio le chiamava correttamente “pendino Santa Barbara” perché appunto pendono in modo leggero e delicato dalla parte superiore in cui si trova Piazzetta Monticelli, dove vi è lo storico Palazzo Penne, fin giù in quella che oggi è via Sedile di Porto, dove un tempo vi arrivava il mare.

Conobbi i coniugi Corelli un caldo pomeriggio di agosto mentre rientravano dal mare con i loro cinque nipotini. Don Antonio rincorreva lungo quelle scale il piccolo Luca, uno dei suoi tre nipoti, mentre Nunzia, sua moglie, teneva per mano le due nipotine, Lucia e Maria, gemelle di appena tre anni.

Fu proprio il piccolo Luca che, emulando suo nonno, a modo suo spiegava la storia di quelle scale, ora ad un turista italiano fermo lì ad osservare quel luogo unico, ora ad una coppia di turisti stranieri che, innamorati della nostra città, guardavano con ammirazione quel piccolo scugnizzo.

Fu Don Antonio a raccontarmi dei tanti misteri che avevano avuto luogo su quelle scale, un tempo uno degli accessi al centro città. Ricorda bene le quattro giornate di Napoli e, sebbene fosse ancora un bambino, aveva bene in mente ogni tentativo dei tedeschi di entrare in città. Ricorda come suo padre e suo fratello maggiore iniziarono a gettare giù ogni oggetto pesante in quel vicoletto, cercando di fermare la risalita dei tedeschi.

Ricorda anche di sua madre, che ebbe appena il tempo di mettere in salvo il piccolo Antonio, allora di soli cinque anni, per poi unirsi alla lotta e contribuire con il lancio di oggetti pesanti, tra cui ferri da stiro e un tavolo in marmo.

Qualche anno dopo, Nanni Loy ambienterà proprio su quelle scale una delle scene de “Le quattro giornate di Napoli”, ricreando fedelmente quanto vissuto nella realtà dal piccolo Antonio.

Anche con me, il piccolo Luca, quella minuscola creatura, raccontava ogni dettaglio dei tanti bambini come lui che, per amore della città, avevano cacciato gli invasori proprio su quelle scale. Poi mi prendeva per mano e mi trainava fino a palazzo Penne, dove, con il suo sorriso unico, mi mostrava Napoli da un punto di vista veramente unico. Con voce chiara e inequivocabile, gridava i nomi di Gennaro Capuozzo e Pasquale Formisano, due ragazzi adolescenti che passarono alla storia per aver liberato la città dalla triste occupazione, pagando con la propria vita.

Correndo su quelle scale e alzando lo sguardo al cielo, ripeteva quella stessa frase che il piccolo Gennarino Capuzzo aveva gridato prima di morire ai tedeschi: “Adesso vi facciamo vedere noi chi sono i napoletani”.

Sono passati molti anni da allora e oggi il piccolo Luca Corelli è un docente di storia dell’arte presso una prestigiosa università americana. Quando può, torna a Napoli e spesso lo si incontra con suo figlio Antonio proprio su quelle scale, dove tutto ha avuto inizio. Proprio lì, dove ascoltando i racconti di suo nonno e della nonna, hanno tramandato i veri valori della vita e l’orgoglio di essere partenopei.

Ancora oggi, percorrendo quelle scale, si respira l’aria di una Napoli autentica, vera e sincera, incredibilmente silenziosa, avvolta tra i colori dei balconcini così caratteristici da far innamorare chiunque di questa splendida città.

Quando passo da lì, immagino quanto questa città possa insegnare al mondo, quanta strada è stata fatta e quanta ancora possiamo farne per continuare ad essere un esempio per il mondo intero.

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Storie verosimili della città di Napoli n. 70: La storia delle scale Santa Barbara, il simbolo del vero orgoglio partenopeo.
Foto di Giancarlo de Lucia

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