Una scorreria corsara nella Napoli del Cinquecento.

Può capitare di fare confusione, ma corsari e pirati non sono la stessa cosa. Per farla semplice diciamo che la differenza sta nell’autorizzazione, più o meno ufficiale, concessa ai primi da uno stato sovrano. Una specie di legittimazione che assimilava le azioni di guerra e razzia delle navi corsare a quelle condotte dalle forze regolari.

Per i pirati, tutta un’altra storia: veri e propri fuorilegge “in proprio”, quindi nessuna autorizzazione, regola o limitazione.

Dragut

Nel Mediterraneo la “guerra di corsa”, praticata già in tempi remoti, si diffonde durante il Cinquecento. Nel duro scontro tra l’Impero Ottomano e gli stati cristiani, le azioni guidate da audaci comandanti barbareschi, i raìs, contribuiscono a scrivere la storia dell’epopea corsara. Khair ed-Din “Barbarossa”, Turghud Alì “Dragut”, Uluj Alì “Luccialì” (calabrese convertitosi all’Islam) i nomi dei più celebri, protagonisti di assalti verso qualsiasi tipo di nave nemica e di feroci scorrerie sulle coste degli stati cristiani.
Nel 1563 una di queste imprese “mordi e fuggi” riguardò Napoli.

Durante i primi mesi dell’anno, per ordine del vicerè don Pedro Afan de Rivera, duca d’Alcalà, venticinque imbarcazioni napoletane armate di tutto punto presero il largo facendo rotta su Barcellona. Insieme alla flotta spagnola, si sarebbero poi dirette verso le coste maghrebine in soccorso al presidio ispanico di Orano assediato da terra e da mare dai musulmani.

L’avvicinarsi della forza cristiana produsse la fuga della squadra corsara ottomana comandata da Dragut. Ma la contromossa era pronta: se le imbarcazioni napoletane erano tutte ad Orano, Napoli era certamente sguarnita di qualsiasi difesa navale.

Vele turchesche comparvero nelle acque del golfo e, come previsto, senza incontrare alcuna opposizione portarono duri attacchi ai nostri litorali. Violenze, saccheggi e rapimenti furono compiuti a colpo sicuro visto che ad accompagnare gli assalitori erano dei rinnegati bene a conoscenza dei luoghi.

Nella tarda sera del 25 maggio, imbarcazioni comandate dal Luccialì approdarono alla spiaggia di Chiaja, a poca distanza dalla cappella di San Leonardo, una chiesetta situata pressappoco dove oggi è la Rotonda Diaz.
L’operazione aveva un obiettivo ambizioso: rapire la marchesa del Vasto e chiedere un ricco riscatto per la sua liberazione. Le informazioni avute da un ex servitore della nobildonna ne davano per certa la presenza nel suo palazzo alla Riviera.

Stavolta, però, l’impresa andò buca: la marchesa da qualche giorno si era trasferita «fuor della grotta», ad Agnano, per cure termali. E allora via con i consueti saccheggi e rapimenti. I rinnegati furono ancora una volta un’utile risorsa: dopo aver bussato agli usci sbarrati, esortavano gli abitanti in una lingua familiare a precipitarsi fuori e porsi in salvo perché «alla riviera venivano i Turchi».
Mentre i più accorti rimasero asserragliati nelle loro case, altri caddero nel tranello: furono subito catturati e le loro abitazioni saccheggiate.

Ospite nel vicino palazzo del principe di Stigliano, il viceré fu svegliato e messo in allarme da tutto quel trambusto. Sebbene vecchio e afflitto dalla gotta, non indugiò a scendere per strada scortato dai suoi armigeri. Intanto sorgevano le prime luci dell’alba e dalla città cominciava ad arrivare gente. Ai corsari non restò che tornare alle imbarcazioni con bottino e prigionieri e guadagnare velocemente il largo verso le galee in attesa.

La richiesta di riscatto per quegli sventurati non si fece attendere e grazie alle somme messe a disposizione dal duca d’Alcalà, dai Monti di Pietà e dalle confraternite per la redenzione dei captivi (liberazione dei cristiani prigionieri), i malcapitati fecero ritorno in città.

Non trascorse molto tempo dall’accaduto che il viceré, fatto tesoro dell’esperienza, ordinò la costruzione di una torre di avvistamento da realizzare nella zona dello sbarco da allora chiamata appunto Torretta.

Altre torri di guardia furono innalzate lungo le coste dall’Italia alla penisola iberica, sentinelle di pietra che ancora testimoniano l’estensione della guerra corsara nel Mediterraneo durata fino alla  prima metà dell’Ottocento.

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